TRENT'ANNI DOPO IL NOBEL IL FUTURO È DI RITA LEVI-MONTALCINI

(Da Lastampa.it) Nell’ottobre del 1986 l’Accademia delle Scienze svedese inviava a Rita Levi-Montalcini la comunicazione, con un linguaggio scarno quanto quello di un comunicato Ansa, l’assegnazione del più prestigioso premio internazionale: il Nobel per la fisiologia e la medicina

Il conferimento del premio suscitò tanta sorpresa nella maggior parte della comunità scientifica italiana quanto un «finalmente» in quella internazionale. Non è questa la sede per analizzare i motivi di questa sorpresa nostrana, perché significherebbe sviscerare i numerosi difetti del nostro mondo accademico che non offrì neppure uno sbocco universitario concreto, quando la scienziata torinese si accinse a ritornare in Italia dopo un ventennio statunitense. Questa opportunità fu prospettata dall’allora presidente del Cnr, Vincenzo Caglioti, che istituì un piccolo Centro di Neurobiologia ospitato nei sotterranei dell’Istituto Superiore di Sanità. 

Il 2016 sancisce il trentennale di quel premio e l’occasione mi ricorda una frase che all’epoca apparve su «La Stampa» di Primo Levi: «Il Premio Nobel si attaglia a Rita come la chiave alla toppa di una serratura». Oggi la domanda è: la chiave di Rita Levi Montalcini (è bene ricordare che eguale merito deve essere attribuito a Stanley Cohen per la sua scoperta dell’«epidermal growth factor» o «Egf») quale serratura ha aperto nella ricerca sul cervello e - domanda collegata - ha anche contribuito al progresso della medicina? 

La risposta alla prima domanda si inserisce nella cornice delle sostanze come vitamine e ormoni che circolano nel sangue e nei tessuti e ne modulano sia lo sviluppo sia la presenza nell’organismo adulto. La scoperta dell’«Ngf», infatti, ha portato alla luce l’esistenza di un’intera nuova classe di queste sostanze circolanti, che i biologi definiscono «fattori di crescita». Dopo «Ngf» ed «Egf», infatti, il numero di fattori di crescita è cresciuto in modo davvero esponenziale e oggi «Ngf» ed «Egf» siedono anagraficamente come vecchi antenati, ma allo stesso tempo come giovani dalle molte promesse per quanto riguarda gli sviluppi clinici. Basta ricordare che Rita Levi Montalcini scoprì l’«Ngf» per le sue proprietà di far crescere le fibre nervose (di qui il termine di «fattore di crescita») con gangli che fanno parte del sistema nervoso periferico. Oggi sappiamo che le sue funzioni si estendono al cervello, al sistema endocrino, a quello che presiede alle difese dell’organismo e, ultimamente, è emerso anche un suo ruolo fondamentale in una fase della fecondazione.  

Nell’ambito di questi studi «organismici», meritano una segnalazione particolare l’impiego dell’«Ngf» in un numero crescente di malattie che colpiscono l’occhio e nel morbo di Alzheimer. L’«Ngf» viene già impiegato per la cura delle ulcere corneali ed è in fase iniziale il suo impiego per il glaucoma. Ma la prospettiva più interessante riguarda quella devastante malattia che prende il nome dal suo scopritore: Alois Alzheimer. Purtroppo - come è ormai ben noto ai ministeri della Sanità di tutto il mondo - il successo nel prolungamento della vita coincide, crudelmente, con l’equivalente incremento delle malattie neurodegenerative, di cui proprio l’Alzheimer rappresenta, in termini di costi umani e sociali, il capostipite. La sua incidenza è sostanzialmente nulla prima dei 40 anni (tranne che nel 3- 5% dei casi ereditari), sale con una curva rapida con l’età, fino a colpire un caso su tre a decorrere dai 90 anni. 

L’aspetto crudele di questa malattia è che ne conosciamo, in molti dettagli, la varietà dei sintomi clinici, cellulari e molecolari, ma non si riesce ancora ad accertare se esista una sola oppure molte cause scatenanti. In questo quadro l’«Ngf» sta emergendo come un potenziale elemento di speranza. Ciò che sappiamo è che, se questo viene a mancare al cervello di animali o di cellule nervose coltivate in vitro, insorgono sintomi molto simili a quelli che colpiscono l’uomo. Altri, negli Stati Uniti e con mezzi molto più consistenti dei nostri, hanno raggiunto le stesse conclusioni è sono già nella cosiddetta «fase 2» del suo impiego per curare pazienti con questa malattia.